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Roberto Vecchioni al Corriere della Sera: «A 80 anni ho capito che Dio esiste. Sento dentro di me il figlio che ho perso»

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In un’intervista intima concessa a Walter Veltroni sul Corriere della Sera, il cantautore si racconta ricordando il figlio Arrigo – deceduto a soli 36 anni – e il traguardo degli ottant’anni.

Di seguito, alcuni estratti dell’intervista:

Roberto Vecchioni, com’ è avere 80 anni?

«Io credo che sia un’età assolutamente uguale a tante altre. Il tempo ha due funzioni: una esterna, che ci debilita o ci opprime. È come scalare ogni giorno una montagna tremenda: è il nostro fisico. Poi c’è l’altra, con Bergson potremmo dire che è l’interiorità di ciascuno di noi. E questa stagione, che riflette il tempo della coscienza, ha poche variazioni. Magari ha slittamenti intellettuali, ideologici, ma la sua natura, dai vent’anni in poi, non si riduce. Anzi, aumenta ogni ora. È un tempo della vita di cui ti sai appropriare. Si è capaci di custodirlo, di assaporarlo con il pensiero. Mentre il destino ha un peso rilevante nella vita fisica, in quella della tua coscienza conta ben poco. È proprio la tua scelta che vince, il libero arbitrio del tuo ragionare e delle tue decisioni».

Quali dei sogni che avevi da ragazzo si sono realizzati?

«Nessuno completamente. Si sono realizzati in parte, poi si sono spezzettati, poi realizzati di nuovo. È il ciclo normale dell’esistenza umana: primavera, estate, autunno, inverno. Le settimane che finiscono inevitabilmente con domenica e cominciano con lunedì. La vita del mondo è un ciclo, non esiste una definizione finale o un approdo finale. Questo consente di tenere vivi i tuoi sogni e di poterli realizzare un pezzetto alla volta, oppure di accontentarti di ciò che sei riuscito a fare. Ma oggi è cresciuta la discrepanza tra il reale e l’ideale. Il reale domina sempre di più il mondo e, contaminandosi con la tecnologia e la tecnica, con il consumo e la velocità, ha reso l’esistenza piatta, terragna. La dimensione ideale è evaporata, quel che resta è sfuggente, spezzato, disunito».

«Il libro si chiama “Lettere di là dal buio”. È la mia vita da quando avevo dieci anni, fino a novanta anni. Tutta raccontata per lettera ad un nonno fantastico, che però non risponde mai. Il nonno a sua volta manda le lettere ad un sacco di gente, una anche a te, una ad Augias… Scrive a tutti lettere su argomenti di ogni tipo: religiosi, politici. Ma non risponde mai a questo ragazzo. Il ragazzo è la mia vita fisica e il vecchio la mia coscienza. Alla fine si uniscono».

Ora sei tu, nonno, a chiamare il ragazzo…

«I momenti più belli sono due: il primo è il grande, grande amore per mia moglie. L’averla vista, incontrata. Quell’istante conteneva tutto quello che sarebbe stato dopo. Avevo già nella mente l’amore fisico, mentale e spirituale che era sempre per lei, era lei. Da quei trentasette anni che avevo, ha riempito la mia vita. Fino ad oggi. Chiamerei quel ragazzo di trentasette anni e gli direi: “Guarda quella ragazza, falla voltare, parlale. Lei ti cambierà la vita”. E poi, devo dirti una cosa, anche se sembra strana: il secondo momento meraviglioso è aver capito, finalmente, la possibilità che esista Dio. Non l’avevo capita né quando ero sulle barricate all’università, né dopo, per tutto il tempo che ho vissuto. Non vedevo. Ci sono state persone che hanno illuminato questa ricerca, come monsignor Ravasi».

Quand’è che pensi di aver trovato Dio? C’è un momento?

«Sì c’è una canzone che lo spiega. È “La stazione di Zima”. Nasce da Evtuscenko. Io sono in treno con una persona, con qualcuno che è probabilmente Dio. Lui mi dice “vieni con me, ti porto in un posto meraviglioso”. E io rispondo di no. Sono ancora nell’incertezza tra il laico e il sacro. Dico no e scendo alla prima stazione che c’è, Zima. È orribile, c’è un solo vaso di fiori ed una sola luce, che si rompe sempre. Però è la terra e io voglio vivere. Pensavo, come dice Pasternak, che questa vita non è un’anticamera, è già una sala ed è questo l’importante. Voglio vivere prima tutta la vita e poi vediamo se… Ma in quel vediamo c’era già l’idea che non tutto finisse in questa sala. Che ce ne fosse un’altra, molto più comoda e luminosa. E proprio ragionando sull’umiltà degli umani, sulle sconfitte e le sofferenze, sulle ingiustizie subite, sul male che c’è nel mondo e che spesso ci domina, mi sono detto che non può non esserci una contropartita. Deve esserci qualcosa, perché non può finire così».

Gli errori che consiglieresti a te bambino di non fare?

«Ne ho fatti tantissimi, anche grandi. C’è sempre gente che dice “no io non rifarei tutto quello che ho fatto”. Ma, in realtà, se fai un’altra cosa, sbagli lo stesso. È una dimensione borgesiana: i sentieri che si biforcano e qualsiasi direzione prendi è sbagliata, dovevi prendere l’altra. Rinuncio ad un errore per farne un altro. L’esistenza non è fatta per trovare sempre la giusta via. Noi ci siamo ribellati all’idea di avere le strade segnalate per essere felici e abbiamo detto: no, noi vogliamo soffrire sulla terra, dobbiamo cercare, sbattere, cadere, rialzarci. La vita è fatta di errori, di salti, di sbagli e io ne ho fatti tanti. La mia carriera ha influito tanto, tantissimo per le persone che mi sono vicine. Però se avessi rinunciato alla mia carriera probabilmente sarebbe successo qualcos’altro. Molti amici li ho persi per colpa mia, perché mi sono comportato in maniera stupida o arrogante. Li ho persi e qualcuno non l’ho ritrovato più. Gli errori sono sempre sugli affetti, mai sulle cose. Non mi importa nulla di aver vinto o no Sanremo. L’errore è sull’affetto sbagliato, non compreso o non dare nel momento in cui devi».

Che speranza hai oggi a ottanta anni?

«Arrivare a ottanta anni è una fatica, ma si è come prima. Quando la mente e il cuore sono come quando hai trent’anni, il resto cambia poco. L’infinita bellezza di avere ottanta anni è che ti viene l’idea che tu non morirai. Il giovane ha naturalmente paura della morte. Forse i giovani di oggi no, perché vanno in giro a fare quelle cose orribili, proprio perché hanno perduto le parole. Invece il vecchio pensa che sarà un addormentarsi lento. Non è una fine, è un vivere in un altro modo. Nel Prometeo c’è una frase che spiega tutto: “Io ho tolto agli uomini la paura della morte. Come hai fatto? Ho immesso nei loro cuori speranze cieche”. Questa è la forza che ci manda avanti. La speranza non ci fa vedere più indietro. Andiamo avanti così. E non pensiamo alla morte. Tutti pensiamo al lavoro, a fare l’amore, alla vacanza. Nessuno pensa alla morte, perché siamo pieni di tante altre cose meravigliose che ha immesso in noi il Creatore, o la Natura, proprio per evitarci questo pensiero».

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