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Anchise il padre sulle spalle - il vero tempo della vita

L’unico grande tempo della vita

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Per il ciclo, Anchise: il padre sulle spalle

Tratto dal libro di Luigi Maria Epicoco “La scelta di Enea” Edizioni Rizzoli 2022 pag. 81 e ss – Riduzione e adattamento del testo di Grazia Dalla Torre

La vita non è mai la stessa e ce ne accorgiamo anche dal modo in cui la raccontiamo, la narriamo. Anche per la vita usiamo la parola stagioni perché ci accorgiamo che non è mai uguale. C’è un tempo in cui, come in primavera, la vita germoglia, è essa stessa promessa, è apertura al futuro, è vita che fermenta dal basso e che come fuoco attraversa i giorni, il tempo, le nostre scelte. Quella stessa vita poi, a un certo punto, diventa pienezza, diventa vita matura, come l’estate. Quella vita sa raccogliere il grano, l’uva, le olive, cioè è il compimento di quel frutto maturo che è dato dai sogni che si sono coltivati nella giovinezza, gli amori che si sono scelti, le strade che si sono percorse.

La vita adulta è sempre vita in cui si sperimenta in un certo qual modo il gusto dell’esistenza stessa. Ma inevitabilmente ciò che germoglia, ciò che arriva a maturazione man mano declina, è nella natura il sopraggiungere dell’autunno, che è il tempo in cui la maturità comincia a diventare invece esperienza di finitudine, di decadimento. Questo autunno nella vita delle persone sopraggiunge superata l’età media, è il tempo in cui l’essere umano si accorge che la stragrande maggioranza della propria vita è già vissuta e che non si può più ricominciare da capo, non si possono più fare delle scelte radicali, strutturali, ma tutto ciò che si è fatto e si è scelto è diventato in una certa misura ormai irreversibile. Siamo sempre molto spaventati quando ci accorgiamo che la vita è diventata irreversibile. Questa può diventare essa stessa una malattia e una tentazione. Non di rado si possono incontrare adolescenti, giovani, anche adulti che hanno la percezione di non avere più il tempo necessario a cambiare rotta, a fare scelte decisive per la propria esistenza. Non avrebbe senso durante l’adolescenza, la giovinezza e la vita adulta pensare che ormai alcune scelte e alcune cose che sono accadute sono irreversibili.

C’è un tempo specifico nella vita di una persona in cui ci si accorge di essere entrati in un territorio diverso, che non è più semplicemente il tempo dell’esperienza, della sperimentazione. È il tempo in cui bisogna aver cura di ciò che è accaduto, di ciò che si è scelto, di ciò che c’è stato. Questo autunno ha un ruolo importante perché è proprio che avviene la riconciliazione con la vita. È il momento in cui si ha il desiderio di rileggere la propria storia in maniera nuova. Di poter allo stesso tempo accogliere la luce e il buio, i successi e i fallimenti, le cose belle e le cose brutte accadute. Ma questo tempo dell’autunno della vita umana non è l’ultimo tempo. C’è poi quella che normalmente viene chiamata la terza età, ed è l’inverno, cioè l’esperienza dell’anzianità, della vecchiaia. Anche soltanto nel linguaggio comune, quando si pensa alla vecchiaia, all’anzianità, a quello che abbiamo definito il tempo dell’inverno nell’esistenza, la percezione è quasi sempre negativa perché è un tempo prossimo alla morte. La morte è sempre la memoria della nostra finitudine, della nostra creaturalità. (…)

La vita viva è sempre vita in crisi. Quindi per un bambino, per un giovane non è mai facile essere bambino o giovane, non è mai facile vivere il tempo della primavera della giovinezza. La precarietà e l’apertura al futuro sono sempre senso di spaesamento. Un giovane molto spesso non vive con gioia la sua giovinezza, la vive come un problema da superare. Ma paradossalmente l’adulto che guarda il giovane lo guarda con affetto e allo stesso tempo con invidia; invidia quel tempo, il tempo che è dato a un giovane, a un bambino. Invidia, e allo stesso tempo guarda con uno sguardo nuovo la possibilità che è depositata nei suoi occhi, nelle sue scelte, in ciò che è in quell’istante. Ma non appena la vita giovane diventa vita adulta, ecco che si presenta non un tempo di pace ma ancora una volta un tempo di conflitto, un tempo problematico.

La vita adulta è vita complessa perché è il tempo della responsabilità. Vivere la vita senza mai prenderci la responsabilità di alcune scelte, di alcune situazioni significa non diventare mai veramente adulti. Ma quando si diventa adulti perché ci si prende la responsabilità di qualcosa, se ne sente anche il peso, il peso di avere sulle proprie spalle il destino o l’esito di alcune scelte, di alcune persone, di alcune situazioni. Ecco allora che l’adulto comincia a pensare che avrebbe potuto vivere diversamente la propria giovinezza e allo stesso tempo con un certo realismo immagina la vecchiaia come un tempo di pace, un tempo in cui, lasciando le responsabilità, potrà vivere un riposo. Ma non appena la vita adulta varca quella soglia, che è la consapevolezza di aver trascorso già la maggior parte della propria esistenza, ed entra in quello che abbiamo definito un tempo in cui ci accorgiamo che molte cose sono diventate irreversibili, ecco che scatta nell’animo umano ancora un conflitto, ancora una problematicità. Ci assale il dubbio che forse abbiamo sbagliato tutto e che forse non siamo stati felici perché le cose sono andate in un certo modo, e cominciamo a ipotizzare che la vita poteva accadere in altri modi. Ci immaginiamo che cosa sarebbe stato di noi senza quelle persone o con altre persone ancora, se invece di quella situazione specifica se ne fosse presentata un’altra. Questo è il motivo per cui molti adulti che entrano in questa consapevolezza dell’irreversibilità della propria esistenza tentano in tutti i modi di cambiare ancora una volta le carte in tavola, di trovare nuove storie, di provare di nuovo degli amori, di mettere tutto in discussione, di ripensare la propria vita da capo.

Vorrebbero ritornare all’inizio e tentano un’ultima partita, invece di prendersi cura di ciò che ormai è definito come irreversibile. Si sentono soffocare dall’irreversibilità della vita e tentano di sfuggirle con tutti se stessi. (…) Se la maggior parte della gente pensa che il tempo della vecchiaia sia il tempo della pace semplicemente perché non c’è più la spinta e la precarietà del sogno, o il peso della responsabilità, o ancora la crisi di accorgerci che ci sono delle cose che sono diventate definitive, in realtà non si rendono conto che è anch’esso un tempo problematico, conflittuale. È sempre molto difficile congedarsi, accogliere il declino del corpo, della mente, ed è proprio in questo momento che emerge una sensibilità che potremmo definire più delicata. Il tempo dell’anzianità è lo stesso tempo della fragilità dei bambini: ci si sente in balìa e consegnati agli altri in maniera più decisa. È il tempo in cui le emozioni diventano a volte subito commozione, diventano lacrime. Oppure, possono diventare cinismo. Anche la problematicità della vita anziana può diventare essa stessa resistenza, essa stessa il problema.

Anchise rappresenta esattamente la personificazione della vecchiaia, che se da una parte si mostra nella sua rassegnazione, allo stesso tempo si lascia condurre, si lascia portare, si lascia prendere in braccio da suo figlio. (…) C’è bisogno di un’inclusione generazionale tra i bambini, i giovani, gli adulti, i vecchi e la consapevolezza che ogni tempo non può essere vissuto nella solitudine. Ghettizzare le stagioni della vita, cioè lasciare che i giovani stiano con i giovani, gli adulti con gli adulti e i vecchi con i vecchi significa non aiutare le persone a comprendere che la problematicità di una stagione della propria esistenza è affrontabile solo e soltanto attraverso un’integrazione generazionale. Allora il tempo dei sogni, il tempo della responsabilità, il tempo della consapevolezza dell’irreversibilità di alcune scelte e il tempo dell’accettazione della propria finitudine diventa un unico grande tempo della vita umana.

I sogni dei giovani aiutano i vecchi ad accettare la finitudine della vita, ma la finitudine della vita di un anziano aiuta i giovani a prendere sul serio i propri sogni e quindi li spinge a diventare adulti, perché si diventa adulti quando ci si assume la responsabilità dei propri sogni, e si accetta anche che non si può avere tutto, che scegliere significa sempre rinunciare a qualcosa. (…) Non si può ad esempio amare tutti, ma per amare bisogna sempre scegliere qualcuno. Non si può dare tutto nella vita, ma per poter dare il massimo bisogna scegliere un dettaglio, bisogna cioè accettare che la definitività di alcune cose è data proprio dalla loro irreversibilità, ma che quella definitività, quella irreversibilità non sono una privazione di vita bensì la possibilità della vita stessa di diventare qualcosa di concreto, di realizzabile, qualcosa che possa compiersi. E in questo senso di pienezza e di compimento bisogna imparare a congedarsi, imparare a fare spazio alla fine, ad accogliere la morte. Essa non è subito un’amica, ma è cammino di riconciliazione con qualcosa che avvertiamo contrario alla nostra stessa natura, che grida vita anche davanti all’ineluttabilità della morte.

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