Montedomini: per andarci bisognava saperlo. Sapere che esisteva, dico, e che mondo c’era là dentro. Da fuori, infatti, l’edificio non attirava l’attenzione. La facciata era uniforme, nessuna scritta vistosa. Una costruzione d’origine antica che, come molti luoghi di Firenze, ha attraversato i secoli con cambiamenti e rifacimenti, evolvendo la sua funzione di servizio e accoglienza.
Si trovava – e si trova tuttora – in una stradina alle spalle dei Lungarni, Via dei Malcontenti. Il nome della via sembrava una tetra profezia di quello che avremmo incontrato. Dentro infatti ci abitavano persone anziane, centinaia, per lo più sole, alcune abbandonate dalla famiglia. Malate, non autosufficienti.
«Vedrai che è un’esperienza», mi aveva assicurato Enrico mentre ci avvicinavamo. Eravamo in tre: Enrico, Alberto e io. Enrico aveva insistito fino allo sfinimento perché ci andassi: diceva che lui era cambiato da quando c’era stato per la prima volta. Sono passati molti anni da quella sera di dicembre, alle soglie del Natale. Ma quando ripenso a quella visita mi sembra di essere ancora là e ogni dettaglio mi torna in mente come se lo vivessi proprio adesso.
Entrando sono un po’ teso. L’atmosfera è strana, l’odore nell’androne è un miscuglio di orina e disinfettante che acuisce il mio disagio.
L’edificio è grosso e diviso per nuclei. Enrico si dirige con sicurezza verso il nucleo “Iride”. Ci ritroviamo in una grande sala, povera e sguarnita. Una decina di tavoli a cui siedono una trentina di persone. Molto anziani, soprattutto donne.
Enrico sottolinea il nostro ingresso con un rombante: «Buonasera a tutti!», che non riscuote particolare successo. Una televisione accesa fa un rumore di fondo, anche se non la guarda quasi nessuno. Entriamo giusto in tempo, è appena arrivata la cena, distribuita rapidamente ai tavoli dal personale della struttura. Il nostro compito è di imboccare quelli che non sanno mangiare da soli. Ognuno ha una persona che gli viene affidata.
La mia si chiama Giorgina. Mi avvicino a lei con un po’ di timore. Non parla. Ha le mani e le braccia ridotte molto male. Ha dei begli occhi, doveva essere una bella ragazza da giovane, ma ha un’aria contrariata, come se fosse arrabbiata per qualcosa.
Da mangiare c’è minestra di lenticchie. Sorrido, perché da bambino le odiavo, le lenticchie, e adesso devo darle alla Giorgina.
«Mhm… buone queste lenticchie!», azzardo recitando, per rompere il ghiaccio. La Giorgina mi guarda di traverso. Ne prendo un po’ col cucchiaio e gliele avvicino alla bocca. Ma lei tiene la bocca chiusa.
«Guarda che sono buone…», mormoro un po’ in crisi. La Giorgina rimane in silenzio e con il dito mi fa cenno di no con decisione. Già so che dovrò presto arrendermi e chiamare un infermiere.
Al tavolo di fianco Alberto ed Enrico danno da mangiare alle loro signore. C’è Rosina, che ormai non ragiona più e ringrazia Enrico a ogni boccone, chiamandolo Roberto: gli infermieri dicono che chiama tutti Roberto: «Grazie molte, Roberto, è proprio gentile da parte tua, Roberto, te ne sono molto grata». «Di nulla, Rosina», ribatte Enrico, stando al gioco.
«Devi salutarmi tanto tua madre e tua sorella». Rosina sorride. Poi non vuole più mangiare, e dice che deve mangiare Roberto. Enrico insiste, dicendo che ha già mangiato.
Intanto Alberto ha finito di dare le lenticchie alla sua signora, e lei gli sta raccontando dell’alluvione del ’66, chiedendogli come mai lui non se la ricordi.
Non devo essere da meno e torno alla Giorgina. «Allora Giorgina, le assaggiamo queste lenticchie?». La Giorgina tiene il muso.
Provo a raccontare: «Lo sai che da piccolo non volevo mai mangiare le lenticchie e mia madre mi diceva: “mangiale prima che buttino fuori la piantina”? Allora io mi convincevo e a poco a poco le mangiavo, poi mia madre scherzava e diceva che le lenticchie avrebbero buttato fuori la piantina nella mia pancia…».
La Giorgina sorride: ha capito la mia storia. Riprovo con il cucchiaio. Ma lei mi fa cenno che devo mangiare io.
Rimango interdetto e guardo le lenticchie sul cucchiaio. Poi mi decido. «Va bene» dico, e mangio io la cucchiaiata che era destinata a lei. Le lenticchie in bocca hanno un sapore speciale. Deglutisco. La Giorgina mi guarda sorpresa e sorride.
«Sono davvero buone. Sai cosa ti dico? Me le pappo tutte io!», e ne prendo un’altra cucchiaiata.
La Giorgina ora fa un gesto indispettito e le vuole lei. «D’accordo, adesso tu», le dico, prendendo un’altra cucchiaiata. E stavolta la bocca senza denti della Giorgina si apre e le do le lenticchie. All’inizio sbrodola un po’, ma sdrammatizzo. «Speriamo che non buttino fuori la piantina nella pancia», scherzo.
Non sono più teso. Adesso la imbocco in silenzio, con calma. Non so bene cos’altro dire, allora mi viene un’idea. E a ogni boccone le faccio un sorriso, e a ogni sorriso, anche lei mi sorride. E stiamo lì, a sorriderci mentre lei mangia. E sembra che abbiamo un nostro piccolo segreto.
Racconto tratto da Domani è sempre Natale di Luigi Vassallo
Edizioni ARES 2024